Se avesse detto al padre che avrebbe voluto fare l’attrice, probabilmente sarebbe stata disconosciuta o quasi. Eppure ancora oggi, ad un giorno dal ritorno in prima serata su Rai1, lei stessa ringrazia l’impiegata d’agenzia che l’ha “costretta” ad andare al primo provino. Francesca Cavallin, trentasette anni, veneta di Bassano del Grappa, conserva ancora intatta quella praticità tipica della sua terra, per cui «da me, se non produci un bicchiere, non sei nessuno». Un aspetto che le è tornato utile anche per “Tutta la musica del cuore“, la fiction in sei puntate che partirà domani sulla prima rete Rai. La fiction, infatti, racconta temi con cui chi vive alcune realtà del Paese ha a che fare concretamente tutti i giorni. Ma lo fa in maniera diversa, ed è questo quello che ci racconta la protagonista di “Tutta la musica del cuore”.
“Tutta la musica del cuore” doveva partire a gennaio. Perchè si è verificato questo rinvio?
Sì ma non mi è dato sapere la ragione. Ho chiesto un po’ in giro, ma non ho avuto risposte alle mie domande. Mi piace pensare fosse tutto previsto.
In “Tutta la musica del cuore” sei Angela Braschi, un ispettore inflessibile del Ministero dell’Istruzione. Hai dovuto forzare te stessa?
Non più di tanto, dal momento che ho usato molto la mia parte veneta. Sono stata cresciuta a pane, regole e disciplina, perciò non è stato difficile. Ma nella fiction si vedrà anche il mio lato artistico, che devo a una persona davvero speciale.
A chi ti riferisci?
Sto parlando del mio professore di storia dell’arte, che mi ha cambiato la vita. Senza di lui, non avrei mai fatto l’attrice, invece è stato bravo a farmi capire che attraverso l’arte si possono formare gli individui.
Restando in tema-scuola, a proposito del tuo personaggio si potrebbe parlare di “promoveatur ut amoveatur”?
Si, esatto, è l’espressione giusta. Angela Braschi viene promossa e mandata in Puglia, solo per essere allontanata da Roma, dove aveva pestato i piedi a troppe persone. È un esilio forzato, sebbene l’incarico sia prestigioso rispetto a quello precedente. Ma lei non vorrebbe andare perchè la Puglia è un territorio difficile, ma soprattutto perchè rivangherebbe una sua vecchia ferita.
Braschi viene inviata in un conservatorio pugliese. La sua ferita ha a che fare con la musica?
Si, Angela è ancora scossa dalla morte del compagno, violinista e sua spalla nelle esibizioni. Un’esperienza della sua vita si è chiusa, ma la ferita è ancora aperta, e per lei il violino scotta. Il rapporto con la musica è contrastato, e solo grazie ai ragazzi del conservatorio si riavvicina alla sua vecchia passione. Ragazzi speciali, bravi a suonare, ma anche a combattere la mafia.
Più difficile avere a che fare con i Baroni, oppure con la mafia?
La mafia spesso è strisciante, impalpabile. Invece suo il primo ambiente, quello universitario, Angela lo conosceva bene, e in un certo senso era il suo habitat, sapeva come comportarsi. In Puglia si è dovuta approcciare ad un tipo diverso di criminalità, per lei sconosciuto, quindi più ostico.
La musica contro la mafia è solo una bella suggestione?
No, la musica può essere uno strumento di riscatto sociale, ed è quello che raccontiamo in questa fiction. Abbiamo voluto raccontare la mafia senza sparatorie e sangue, ma rivolti agli effetti che provoca. Uno di questi è togliere la speranza dai cuori dei ragazzi, così da spingerli a scegliere l’unica alternativa: prendere la strada della criminalità.
Appunto, spesso non si hanno alternative. Come si fa a scegliere?
È quello che vuol far credere la mafia. Non è importante raggiungere l’obiettivo, spesso il percorso in sè è ancor più formativo, perché avere una passione regala una speranza, assieme all’opportunità di fare conoscenze nuove, e sviluppare una capacità critica della realtà. Proprio quello che alla mafia non piace, perché vuole un esercito di lobotomizzati, e di gente addomesticata. Per certi versi è il rischio culturale che corre anche il nostro Paese.
Fai parte anche del cast di Un medico in famiglia: com’è stato avere Catherine Spaak come mamma?
Non conoscevo Catherine prima di recitare insieme a lei, ma devo dire che è una persona molto profonda, e con lei ho iniziato un rapporto che sto coltivando. In scena, poi, ci siamo trovate alla perfezione, dovendoci subito scontrare tra madre e figlia. Forse lì è venuta fuori anche qualche mia esperienza personale, perchè lei è una madre in carriera che trascura i figli, e di questo si discuteva nella prima scena che abbiamo girato.
Quando hai deciso di fare l’attrice, e come hai iniziato?
In realtà non l’ho mai scelto, mi è stato chiesto dopo la laurea, quando lavoravo per una galleria d’arte. Mi affidai ad un’agenzia per arrotondare con un altro lavoro, e l’impiegata mi chiamò dicendomi che c’era l’opportunità di fare un provino, ma le dissi che non volevo farlo.
Perché hai detto di no?
Non avevo il coraggio di dirlo a mio padre: mi avrebbe cacciata di casa! (ride, ndr) Poi avevo 26 anni, non avevo studiato e avevo già chiesto un altro lavoro. Ma la signora mi costrinse ad andarci, così accettai e mi ritrovai al Centro Teatro Attivo di Milano, per un corso di recitazione.
Quindi non hai cominciato subito a lavorare?
No, mi sono dovuta rimettere a studiare, e dopo due anni ho ottenuto il mio primo vero provino e vinto il primo lavoro. E anche se nella terra da cui provengo, se non produci almeno un bicchiere non sei nessuno, devo dire che sono contenta per le emozioni che la vita mi ha riservato, solo perché ho coltivato le mie passioni. Fatelo!